Emanuele Luciani ha riesumato la storia singolare di un pioniere di Villafranca, l’aeronauta Eligio Quaglia, rilevando che «il capitano Quaglia», come lo chiamavano allora, gode di una indiscussa celebrità fra la fine dell’Ottocento ed i primi del Novecento. È di origini bresciane, ma a Villafranca trascorre gran parte della sua vita e molte delle immagini che ci offrono una preziosa testimonianza del passato di quella città sono sue: dismessi i panni dell’aeronauta si darà infatti alla fotografia. Le sue ascensioni con la mongolfiera costituiscono sempre uno spettacolo. Sia per le particolari modalità con cui le effettua, esibendosi al trapezio mentre il pallone prende quota, sia e soprattutto perché gli capitano spesso degli imprevisti: uno spettacolo nello spettacolo, non per lui, ovviamente, ma per il pubblico. Succede, per esempio, nel giugno del 1897, quando, in un’Arena affollata da circa diecimila persone, sono in programma esibizioni di vario genere, «clown musicali» (sic), saltatori, l’uomo rana, un velocipedista «che fa strabiliare con i suoi esercizi ciclistici» e poi il capitano Quaglia, «che intraprenderà un viaggio aereo sospeso al trapezio». La giornata è bellissima e tutto procede nel migliore dei modi. Alle 19 iniziano i preparativi per il volo della mongolfiera. Non si tratta di una operazione semplice: bisogna riempire il pallone di fumo bruciando legna verde e paglia umida. Gli imprevisti sono all’ordine del giorno e si verificano puntualmente anche in questo caso. Prima, con una folata di vento che rischia di compromettere tutto, e poi, quando la situazione sembra di nuovo sotto controllo, con delle scintille che, sfuggite dal reticolato del fornello, appiccano il fuoco alla tela, provocando un buco di una decina di centimetri di diametro. Ma alla fine si rimedia in qualche modo e la mongolfiera si innalza fra gli applausi, con Quaglia che volteggia imperterrito, appeso al solito trapezio. Dopo un breve volo l’aerostato atterra tra Porta Vescovo e San Pancrazio, dietro l’antico bagno militare, e l’aeronauta, accompagnato dal consueto codazzo di curiosi e di ammiratori, ritorna trionfalmente in centro. La sera successiva lo spettacolo viene replicato ed in Arena si registra il secondo “pieno”. Questa volta la mongolfiera si gonfia senza incidenti ed il capitano, che indossa una sorta di calzamaglia nera con una blusa di seta viola, afferra il trapezio, lancia con voce tonante il suo solito avvertimento («Via tutti») e prende quota fra gli applausi gridando: «Viva Verona!». La mongolfiera punta verso Porta San Giorgio, ma non c’è vento sufficiente per uscire dalla città e perciò, racconta puntualmente un cronista, «cadde senza incidenti sul tetto del Liceo Maffei, dal quale fu tolta dal Quaglia stesso e da alcuni volonterosi». L’incidente, insomma, non manca mai e, per stare in tema, vale la pena di ricordare che in un’altra esibizione, effettuata nel 1903 sempre in Arena, nel momento del decollo e del solito grido («Via tutti!») un ragazzo di sedici anni, che come molti altri non si è mantenuto a distanza (secondo «un brutto vezzo del popolo», precisa “L’Arena”), resta impigliato alle corde con una gamba e viene sollevato per aria. Il pronto intervento di alcuni presenti evita una tragedia e tutto si conclude «con molto spavento e leggere contusioni». Ma anche negli ormai prevedibili imprevisti, c’è una sorta di motivo ricorrente, quello dei voli finiti in Adige. «Nessuno riuscì mai a chiarire – ha scritto a questo proposito Giuseppe Franco Viviani – se fosse l’Adige che aveva un debole per Quaglia o questi per il fiume. Dentro al fiume o vicinissimo ad esso, infatti, la sua mongolfiera pareva dover inevitabilmente finire». Ma Quaglia, che tra l’altro ha anche il fisico del ruolo («un bell’uomo dal viso maschio e ardito con un corpo da ginnasta perfettamente modellato») e che certo non difetta di coraggio, riesce sempre a cavarsela. Cambiano le sue mongolfiere, che hanno tutte il loro nome (“Città di Ancona”, che finirà incendiata, “Città di Verona”, “Aquila”, “Iride Verona”) ma non l’aeronauta, che sopravvive felicemente a centinaia di ascensioni e che conclude la sua vita in tarda età nel 1946, quando il volo sta per diventare un fenomeno di massa e degli “aeronauti” si va perdendo anche il ricordo. (Tratto da: Verona Volat, di Gianni cantù, Cierre Verona)
Il 26 ottobre 1933 La Stampa di Torino dedica un lungo
articolo al singolare aerostiere veronese, dal titolo
"Eligio Quaglia, 560 volte sopra le nuvole". Ecco il testo
scritto da Carlo Manzini: Ellgio Quaglia è, oggi,
semplicemente un modestissimo fotografo «che ognuno, a
Villafranca, indica, mentre gira per la strada, facendo passare
la mano a ventola davanti alla fronte, come si fa per certi
pazzi rinsaviti o per i matti non pericolosi: una macchietta! Ma
una macchietta che, « temporibus illis », s'è librata, in tutti
i cieli della penisola, davanti a migliaia di occhi, per 560
volte, aggrappandosi ad un areostato gonfio di «Armo di paglia»;
una macchietta la quale al suo attivo ha delle audacie che sanno
di eroismo e di temerarietà e che ora dice, con una aria di
rassegnazione quasi francescana: Adesso, come Dio vuole, faccio
il fotografo ambulante per tessere... Ho anche uno... ma si: uno
studio! Documentazione fotografica dalla sua casacca, il mio
uomo trae le fotografie del tempo ed alcuni vecchi ritagli di
giornali; — li aveva presi dal canterano per noi, nella segreta
speranza che venisse il momento di mostrarceli. E ce li porge,
indicandosi: — Eccolo lì, eccolo lì, — grida — quello lì sono
io. Mi si vede? Si vede un grande pallone, bardato a festa con
frange, bordure e lapislazzuli, nel centro di una piazza
ammantata d'una spessa cortina di fumo; si vedono degli ometti
che fan fuoco su delia paglia e, vicino, assediato da una folla
agghindata a festa, con tube e palandrane, falpalà e trippette,
lui, l'aeronauta, che esclama, con un senso di orgoglio,
esaltandosi: — Sono io, quello lì! Io, Eligio Quaglia, che Dio
mi benedica. Ecco, tra le fotografie, una che coglie la partenza
dall'Arena di Verona; un'altra da Torino, una d'una città di cui
non riusciamo a leggere il nome sbiadito, un'altra da Milano, da
Genova, da Roma, da Ancona... Altre ancora. Il « capitano » Quaglia, comandante dell'areonave « Città di.... », (si metteva, per imbonire, il nome della città ove veniva effettuata l'ascensione) vestiva
una blusa bianca, di seta; portava del pantaloni strettissimi, bleu; in testa metteva un berretto militare, (coi gradi, sissignore) e con tanto di sottogola abbassato; ai piedi delle pantofoline in raso,
rosse; perchè spiccassero, mi dirà poi, nell'« esercizio clou ». Cosi lo vedo ritratto in una fotografia al bromoglio, colta pochi momenti prima d'una partenza mentre egli abbraccia e bacia gli amici, i
conoscenti, gli ammiratori; i «tifosi», si direbbe oggi con un'espressione che attira gli scongiuri. Il pallone, quand'egli appariva così vestito, era già pronto, nel centro di una collana di fuochi
di paglia (il cui fumo veniva convogliato nell'involucro con una serie di « maniche ») mentre la gente, formicolante, si spazientiva, sternutendo e lacrimando, maledicendo il fumo e il puzzo. Meraviglie
di allora Il gonfiamento era la cosa più difficile. Se soltanto « c'era un poco d'aria » ci s'impiegavano un paio d'ore, almeno, a condurre a termine l'operazione, presenziata sempre dai solerti militi
del fuoco. L'ho gonfiato 560 volte; tante furono, infatti, le mie avventurose ascensioni. Quando alla partenza del pallone non mancava che un istante, (poche persone erano più che sufficienti a trattenerlo)
Eligio Quaglia, le mani impiombate su un trapezio che sostituiva la navicella, lanciava il grido fatidico: «Via tutti! Viva...» (Viva ancora il nome della città ove si effettuava l'ascensione). Quei pochi
uomini alle corde, cui pareva gran fortuna l'aver contribuito in qualche modo al volo, — alcuni giorni avanti, da bravi galoppini, avevano «preparata la piazza» sul sensazionale avvenimento, —
abbandonavano le funi e il pallone, come un elefante che avesse preteso di salire al cielo, dondolando a fatica e ciondolando pesantemente, ''sbavando anche un poco di fumetto, s'avviava, pigramente,
prendendo il largo. O miracolo del progresso! Migliaia di occhi sbarrati, qualche respiro mozzato in gola, mentre mille e mille «ooohhh!,.. oohhh!,..» s'allungavano a non finire più staccandosi dalla
folla mareggiante. Poi, passato il primo momento di stupore, venivano i commenti: « Si è alzato davvero... Chi l'avrebbe detto!... Che alto! Salirà ancora?... Sì, al, sale, sale!... ». E via di questo
passo. Era salito tanto che pareva di poterlo pigliare con la mano. L'argonauta, penzolando come un salame dal soffitto, si sbrigava ad eseguire alcuni esercizi acrobatici, — quelli che si fanno sui
trapezi di tutti i circhi equestri d} provincia, — che dovevamo dare, intenzionalmente, la sensazione d'una perfetta sicurezza e tranquillità, e che culminavano con l'« esercizio-clou », con
l’»esercizio brividi»: — Abbandonate le mani, io, io, Eligio Quaglia, capitano e comandante, mi sospendevo, la testa in giù, irrigidendo le gambe e appoggiandomi al trapezio col... dorso del piedi.
Poi anche pori uno solo, colle sole dita. Come un ombrello all’attaccapanni m’appendevo al trapezio... Che Dio mi benedica, ero grande.'... Sotto gli applausi scoppiavano violenti come grandinate
mentre da mille bocche, protese verso il sole, usciva un solo grido: «Quaglia! Quaglia! Quaglia!... », che un cristiano, allora, non avrebbe saputo osare altrettanto. — Oh!, un volo non certo da
aquilotto, anzi, proprio da... quaglia; ma, però, volo. L'esercizio durava sempre pochi istanti: un colpo di vento, per debole che fosse, aveva facilmente ragione, a quell'altezza,, dell'arerostato
cui non pareva nemmeno vero, del resto, di poter riprendere terra e di sfogare via quel po' di fumo che gli restava ancora in corpo. Il pallone, infatti, ciondolato un poco, — si sarebbe detto per
puro onor di firma, compiuta una lunga parabola sui tetti, correva, .con una certa qua! premura, in cerca di riposo. – Gli atterraggi — mi spiega il mio uomo, — avvennero spesso sui tetti perchè
le partenze, la maggior parte dei casi, si effettuavano nelle piazze centrali e perchè la capacità di « tener l'aria » del mio sferico era, specie nel primi tempi, limitatissima.
Un giorno in cui le condizioni atmosferiche erano eccezionalmente favorevoli, fu a Firenze, il Quaglia, al «Mollate tutto» si era sentito dare un tale strappone che per poco non gli si erano
staccate le braccia. Qual giorno battè il suo «record»; ma atterrò … sul campanile della chiesa di San Lorenzo. Ancora oggi l’aeronauta dice della paura passata con un certo qual tremito nella voce.
Solo dopo mezz’ora lo tolsero di là i pompieri; ma che sforzi per fargli afferrare le funi di soccorso, per saldarle bene alla croce c’era sul campanile e per superare, poi, la strapiombante cornice.
Un’altra volta, un bagnino, ginnasta e acrobata, che s’era prestato a tenere le funi, al momento di abbandonare la corda, invasato ed entusiasta, forse per procurarsi un brivido, precursore, in
questo, dei moderni viaggiatori clandestini che ogni tanto si scoprono a bordo dei dirigibili, si afferrò lui pure al trapezio. Il pallone, tra le urla dei presenti, per il troppo peso, dopo avere
fatti una decina di metri di quota, discese sulla folla. Anche quel giorno, che scompiglio, che fuggi fuggi! I due aeronauti se la cavarono a buon mercato. Ma tra i presenti, per il panico, ci furono
molti contusi. Un altro giorno ancora, a Verona, essendo partito dall’Arena, finì, dopo le evoluzioni, nell’Adige in piena malgrado che egli, remando nell’aria con un ombrello aperto, cercasse di
allungare la fatale parabola discendente. «Ma come quel giorno del campanile non ho mai avuto tanta paura. Neanche quando la canaglia rossa, (Quaglia è stato un solerte squadrista), per punire il
mio patriottismo mi dipinse sul muro di casa un teschio contornandolo delle parole: «Morte alla famiglia Quaglia». Io e i miei figlioli ci abbiamo sbattuto sotto, subito, un «Ce ne strafeghiamo».
Ma aspettavamo di notte in notte, che ci facessero la pelle.». Ora legge, o si fa leggere, quello che fanno Balbo, Piccard, Agello. Durante la guerra sapeva a memoria le imprese di Baracca, di Ruffo
di Calabria … Vi parla di Montgolfier, di Charles: i primi aerostieri. E gli pareva e glia pare d’essere un poco, o una molecola soltanto!, parte di loro stessi; di questi eroi del tempo nostro,
figli di un’aviazione che è nata da poco, egli crede, anche da lui. E forse è così!... Povero Quaglia che dopo avermi regalata una copia delle sue fotografie, «la documentazione, signore!» mi ha
salutato tutto timido, quasi vergognoso, m’ha chiesto scusa pel disturbo e delle chiacchiere, ed è scomparso, tristemente, alzandosi un poco i pantaloni abicongiati, verso l’ignoto freddo e scolorito
del piccolo letto apprestatogli, in un volto del vecchio castello dugentesco della cittatina del Quadrato eroico, per i suoi sonni animati di sogni aviatori .
Eligio Quaglia